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la regalita di appartenersi
Barbara Romagnoli

Ex libris - "Regina di fiori e di perle", ultimo lavoro di Gabriella Ghermandi, racconta dell'occupazione italiana in Etiopia, ma anche del percorso di una donna dalle molte identità. Ne abbiamo parlato con l'autrice...

Condividere la memoria che riguarda due popoli, senza omettere nulla né puntare il dito, ma far parlare le contraddizioni e, oltre quelle, guardare al futuro. Questo si pensa dopo aver terminato il bel romanzo di Gabriella Ghermandi (Regina di fiori e di perle, Donzelli editore, 264 pag., 21 euro) dedicato all'occupazione italiana in Etiopia. Nel leggerlo sembra di stare attorno a un tavolo ad ascoltare qualche vecchio di famiglia. Nella finzione letteraria la protagonista che raccoglie le storie, dopo averlo promesso al vecchio Jacob, è Mahlet, bimba cresciuta in Etiopia e divenuta donna in Italia. Ricorda un po' la vita dell'autrice, che ci spiega come è nato questo romanzo, una sorta di musica scritta per essere cantata a più voci.

"Regina di fiori e di perle" è il tuo primo romanzo, ma tu non sei nuova alla scrittura. Perché hai abbandonato il racconto breve?
Nel momento in cui ho sentito l'esigenza di raccontare del colonialismo italiano con la voce della nostra gente, mi sono resa conto che un racconto o uno spettacolo non sarebbe stato sufficiente. Continue storie sorgevano dentro di me, come un vulcano risvegliato all'improvviso. Esplodevano nella mia immaginazione come fuochi d'artificio multicolori. Storie che avevo ascoltato da bambina e altre che mi sono state raccontate, per caso, ma forse non lo era, da alcuni anziani guerrieri che ho incontrato nel mio ultimo viaggio in Etiopia, nel gennaio 2006. Tante storie che avevano bisogno del ritmo lento della mia terra, e quindi un romanzo.

La tua narrazione si svolge sul registro dell'oralità, qualcosa che appartiene profondamente alla cultura tradizionale africana. Il racconto orale è ancora importante o la modernità ha tolto il gusto per la parola ascoltata e tramandata?
La situazione è alquanto complessa. Innanzitutto bisogna parlare delle varie forme di oralità, una di queste nella tradizione etiope è veicolata attraverso il canto, le parole delle canzoni sono la voce del popolo. Il canto racconta dell'attualità, critica, denuncia in una forma molto antica piena di metafore. Oggi questa tradizione è mantenuta dai giovani artisti. Poi esiste la tradizione dei cantori, i cosiddetti "Azmari", improvvisatori di versi, che attualmente hanno aperto locali ad Addis Abeba, molto frequentati. Infine esiste ancora grande rispetto per gli anziani e gli eremiti, i quali sono i detentori della "storia" tramandata attraverso l'oralità. Quindi, anche se in un modo che potremmo dire "adattato alla modernità", la tradizione orale è ancora uno dei pilastri della cultura etiope.

C'è una forte presenza di Dio in questo racconto. Lo stesso Dio degli italiani colonizzatori, eppure appare diverso, forse per via di come il tuo popolo si intrattiene con esso. Qual è il tuo rapporto con la religione?
Io non ho rapporti con la religione ma con la spiritualità. Il mio padre spirituale, un eremita che oggi ha 91 anni, mi ha cresciuta ricordandomi che il rapporto di ciascun uomo con Dio è privato, che la spiritualità è uno sostegno per compiere il proprio percorso e non un ostacolo e che per avvicinarsi ad essa bisogna allontanarsi dal moralismo. Nel mio percorso spirituale ho incontrato lama tibetani e maestri indiani che mi hanno aiutato ad aprire la mente, a trovare nuovi punti di osservazione. Il mio cuore resta vicino al cristianesimo, perché quella è la mia strada anche se non può esserla per tutti. Sono molto grata ai tanti maestri che ho incontrato per avermi aiutato a percorrere un pezzo di strada.

Tante le donne, accanto a Mahlet, protagoniste di questo romanzo corale. Che "peso" ha nella tua vita la differenza/ identità di genere?
Oddio, che domanda difficile. Non ho mai sentito il peso di essere una femmina e neppure il peso di essere mista. Per un certo tempo, nella mia infanzia, ho provato ad essere solo italiana. Così avrebbe voluto mia madre che aveva subìto il colonialismo e sperava che noi, io e mio fratello, non dovessimo vivere le sue stesse pene. Poi sono arrivata in Italia e ho compreso la naturale regalità dell'appartenere a me stessa e alla mia complessità di donna e di incontri di culture. L'essere femmina mi ha aiutato, sono stata coccolata da tutti gli anziani e le anziane di casa e sono sempre stata incoraggiata ad andare avanti. Soprattutto dagli uomini. Ho potuto incarnare il mio animo da guerriera e seguire, seppure in un modo diverso, ossia con l'arma della scrittura, la stessa strada delle tante donne della resistenza di cui parlo nel mio romanzo.

Grazie al lavoro di storici e scrittori come te si è sfatato il mito degli italiani brava gente in Africa, eppure non è ancora diventato patrimonio di memoria collettiva. Cosa bisogna fare secondo te?
Bisogna continuare a parlarne, magari facendo circolare pellicole come "Adwa" di Hailè Gerima, Italian legacy - documentario britannico - o il film "Il leone del deserto" (che in Italia ha subìto una scandalosa censura n.d.r). E poi scrivere le storie di quei tempi, perché, a differenza di un libro storico che permette il distacco emotivo, i film, i romanzi, i racconti, portano gli spettatori ad una emozione empatica che ne risveglia le coscienze sopite. Comprendere di avere sbagliato aiuterà gli italiani a non sentirsi superiori e migliori di altri colonialisti.

Da anni vai in giro con una intensa attività teatrale: spettacoli che parlano di identità multiple e collettive. Che rapporto c'è tra l'essere figlia di più culture e la scrittura?
La scrittura è l'arma magica che mi ha permesso di armonizzare tra loro le mie differenze. Mescolare la lingua italiana agli odori delle spezie del mio paese, ai suoni, ai canti, ai modi di dire è per me fonte di un infinito piacere sensoriale e dell'anima. Attraverso la scrittura io non sono divisa tra le mie differenze, ma quadruplicata, dentro di me si crea spazio per poter essere al contempo italiana, etiope, eritrea, bolognese, senza togliere nulla alle mie diverse identità.

In un tuo racconto dicevi che arrivata in Italia ti aveva colpito quanto gli italiani "programmassero" la vita, incuranti di ciò che accadeva loro attorno. Pensi sia ancora così o c'è altro adesso che noti e che è molto diverso dalla tua cultura di origine?
L'Italia sta cambiando, la programmazione sta sempre più cedendo il passo alla precarietà. Ed è una precarietà molto pesante perché aggravata dalla mancanza di qualcosa che nel mio paese c'è e permette a tutti di continuare a vivere: la solidarietà tra la gente.


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